Jazzit. JazzitFest, per essere pignoli. Dieci lettere rivoluzionarie. Dieci lettere che da cinque anni stanno formando coscienze, rigenerando realtà urbane, dimostrando che “un’altra cultura è possibile”. Dieci lettere che si declinano in una massima di otto parole – “Il futuro è un atto di responsabilità civica” – e in tre riconoscimenti di quelli che levati: il patrocinio della Commissione italiana per l’Unesco, la good practice europea “Culture Shapes The SmartCity” e la buona pratica #laculturachevince.
JazzitFest. Dieci lettere che raccontano di un festival che non è un festival, di un happening del domani che è già presente. Dieci lettere che si declinano tra musica, arte, teatro, fotografia, cinematografia. Dieci lettere che narrano di un melting pot della cultura, di una cultura vissuta come fatto sociale. Dieci lettere che sottintendono l’assenza di finanziamenti pubblici diretti e l’autofinanziamento collettivo tramite le donazioni dei cittadini alla Banca di sviluppo culturale – donazioni che servono anche a finanziare progetti di utilità sociale.
JazzitFest. Dieci lettere che nel 2017 si sono lette in una città, un paese, un borgo chiamato Feltre. Dieci lettere che hanno vissuto di tre giorni di follia e passione, di note e parole, di immagini e suoni. Dieci lettere che sono già storia e memoria condivisa. Dieci lettere che smuovono un accordo formato “dalla quarta e dalla quinta, dalla minore discendente e dalla maggiore crescente”.
Non si può raccontare tutto questo. Bisogna averlo vissuto, averlo assorbito sulla propria pelle. Perché non esistono parole che non siano banali per raccontarlo a chi non c’è stato, e nemmeno a chi c’è stato. Bisognava assaporarlo lentamente, come un bicchiere di whisky single malt invecchiato trent’anni in botti di rovere. Per gustarne appieno il sapore, per lasciarsene cullare sino a svanire.
Però. Però il mestiere di cronista, di schincapenne, è anche quello di trovare le parole là dove non ci sono. Di inventarle se necessario. Di trasformare in lettere, parole, frasi immagini, memorie, suoni. Letta così sembra facile come un referendum di fine autunno e invece è dannatamente complicato, “difficile, come un compito di prima elementare”. A meno di non scadere nella banalità. E quindi pazienza e si chiede venia in anticipo per quanto di stereotipato qui di seguito accadrà.
JazzitFest. Dieci lettere che nel 2017 si sono lette in una città, un paese, un borgo chiamato Feltre. Dieci lettere che hanno vissuto di tre giorni di follia e passione, di note e parole, di immagini e suoni. Dieci lettere che sono già storia e memoria condivisa. Dieci lettere che smuovono un accordo formato “dalla quarta e dalla quinta, dalla minore discendente e dalla maggiore crescente”.
Non si può raccontare tutto questo. Bisogna averlo vissuto, averlo assorbito sulla propria pelle. Perché non esistono parole che non siano banali per raccontarlo a chi non c’è stato, e nemmeno a chi c’è stato. Bisognava assaporarlo lentamente, come un bicchiere di whisky single malt invecchiato trent’anni in botti di rovere. Per gustarne appieno il sapore, per lasciarsene cullare sino a svanire.
Però. Però il mestiere di cronista, di schincapenne, è anche quello di trovare le parole là dove non ci sono. Di inventarle se necessario. Di trasformare in lettere, parole, frasi immagini, memorie, suoni. Letta così sembra facile come un referendum di fine autunno e invece è dannatamente complicato, “difficile, come un compito di prima elementare”. A meno di non scadere nella banalità. E quindi pazienza e si chiede venia in anticipo per quanto di stereotipato qui di seguito accadrà.
Partiamo dalla premessa. Perché scriverne oggi, un mese dopo? Perché la degustazione andava maturata, andava assorbita. Perché soltanto la distanza rende efficace la presenza. Perché la memoria deve insinuarsi subdola nella mente nei momenti più disparati per toccare davvero le corde dei sentimenti. E ovviamente per pigrizia, ché la concentrazione non riesce a essere costante oltre l’ora di scrittura, divagando magari “verso un sinistro al volo nel sette di destra”. Ma sto, appunto, divagando e non siamo nemmeno alla mezza.
Seguitiamo con la fine, che è l’inizio. Da ciò che è rimasto dopo tre giorni di JazzitFest a Feltre. Da ciò che è stato seminato e che, innaffiato adeguatamente, può produrre frutti meravigliosi. Certo JazzitFest è e resterà un evento unico, irripetibile. Impossibile da paragonare ad alcunché. Ma un altro festival, così come un’altra cultura, è possibile. Accogliendo alcune idee, adeguandole alla realtà, trasformandole affinché possa nascere un appuntamento annuale – magari scandito da meeting trimestrali, in sede di equinozi e solstizi, giusto per non farsi mancare nulla. Un Feltre jazz festival. O chi per lui.
L’ospitalità. Che Feltre avrebbe risposto adeguatamente si sapeva. Cinquant’anni e oltre di gemellaggi hanno lasciato il segno. Cinquant’anni e oltre di ospitalità in famiglia, di scambi di culture ed esperienze, hanno insegnato che l’altro è come noi. E che dalla conoscenza delle differenze nasce un’amicizia duratura. Ma la risposta per JazzitFest è andata assai oltre l’immaginabile. Ha raggiunto vette di splendore che raccontano di una popolazione aperta, interessata, coinvolta. Che raccontano di un numero impressionante di famiglie che hanno accolto, e coccolato, musicisti, attori, fotografi, tecnici e quant’altro. Che hanno donato così tanto che gli ospiti stessi non vedono l’ora di tornare.
I volontari. Il lavoro sporco è stato cosa di uno sparuto gruppo di folli invischiati come mosche nella tela tesa dal ragno Luciano Vanni, sognatore come pochi altri oggi. Citarne qualcuno vorrebbe dire dimenticarne altri, quindi il ringraziamento va a tutti indistintamente. A chi si è occupato di trovare le famiglie, contattandole una per una. A chi si è occupato di coordinare l’arrivo degli ospiti, organizzandone il trasporto da aeroporti, stazioni ferroviarie, porti al borgo feltrino. A chi si è occupato della burocrazia italica e dei permessi, lottando come un moderno Davide armato di meno che una fionda. A chi si è occupato di contattare gli artisti per capirne necessità ed esigenze. A chi da dietro le quinte ha svolto in silenzio il proprio compito. A chi, non feltrino!, ha dedicato se stesso per tre giorni a JazzitFest, occupandosi di palchi, strumenti, calendari. A chi ha sfacchinato spostando sedie, strumenti, luci e affini. A chi ha raccolto donazioni, sfiancato sensibilità feltrine e non, dimostrato che donare è un atto di responsabilità civica. A chi anche per un solo secondo ha dato qualcosa a JazzitFest, per JazzitFest.
Gli artisti. Il loro sorriso dal palco è stato il regalo più bello. Il loro essere a disposizione della musica è stata una sorpresa infinita. Gli artisti sono il cuore pulsante di JazzitFest. Dai palchi ufficiali a quelli ufficiosi delle jam session hanno regalato tre giorni di delizia ai feltrini, spandendo ovunque la loro gioia di vivere e di suonare, la loro passione inarrivabile. Ci sono flash: Pasquale Iannarella e Giuseppe Bassi che suonano in ospedale; Gegè Telesforo che vocalizza al teatro de la Sena e in piazza; Pasquale Iannarella, Cettina Di Donato, Mario Pacassoni, Gegè Telesforo, Leonardo De Lorenzo, Johnny Lapio che raccontano le loro esperienze di “musico-terapia” – banalizzazione estrema, lo so; i ragazzi statunitensi che improvvisano coralità in mezzo ai coetanei locali come se si conoscessero da una vita; Pasquale Iannarella – sempre lui, e non è un caso – che rientra a casa e poi imbraccia il sax e scende al bar per intrufolarsi in una jam session; Enrico Intra che sorride, sorride, sorride e se la gode, dal palco e dalla piazza, suonando e ascoltando, insegnando a chiunque fosse disposto ad aprire gli occhi.
Il pubblico. Eh già, perché c’era anche il pubblico. Come mai visto prima in quel di Feltre, per numero e compostezza. Attento ascoltatore di una musica che si pensava per pochi e che è diventata per folle. Pubblico di giovani e anziani, di famiglie e solitari. Pubblico musicalmente istruito e ignorante. Pubblico complice, tra un laboratorio e un concerto, tra uno spettacolo teatrale e una conferenza. Pubblico che ti ripaga di mesi di fatiche, incazzature, delusioni.
Le residenze creative. Sono il futuro che è già presente. Sono l’invenzione del Duemila. Sono ciò che caratterizza e differenza più di ogni altra cosa JazzitFest da qualunque altro festival. I concerti dal palco, le jam session nei locali, sono stati una sorta di “di più”, un omaggio degli artisti alla città. Il vero JazzitFest è quello che si è svolto attraverso le Residenze creative, laddove i musicisti hanno potuto incontrarsi, confrontarsi, sperimentare assieme. Laddove hanno riscoperto la gioia della musica come una passione da diffondere in forme nuove, improvvisate. Laddove persino il pubblico è stato parte integrante dell’esperienza artistica.
La banca. Da non confondersi con “La Banda”, pur se anche in questo caso c’è stato chi “ha visto la luce”. Con la differenza che questa volta si era in missione per conto di qualcuno di assai più importante di una scialba divinità talmente inutile persino per i suoi inventori/adoratori da non possedere nemmeno un nome. La banca quindi, dicevo. La Banca di sviluppo culturale, per essere al solito pignoli. Che è un nome altisonante che riecheggia l’essenza di JazzitFest, quell’altra e nuova – poiché legata al passato – cultura da rendere possibile. Una banca che si è alimentata, e continua ad alimentarsi, soltanto grazie alle donazioni dei cittadini, feltrini e non. Donazioni tramite assegno o tramite bonifico bancario – queste ultime in particolare, corre l’obbligo di ricordarlo, sono ancora possibili sul c/c Bancoposta intestato a Vanni editore Srl, Iban IT22M0760114400000094412897, indicando come causale “Donazione Jazzit Fest #5 e Archivio della memoria civica di Feltre”.
La piazza. In che senso, scusi? Cioè, la piazza c’è sempre stata, è parte di Feltre. Eh, sì. Ma Feltre non l’ha mai vissuta così, come un salotto. Il palco nell’unico posto possibile per valorizzare quella che è una delle più belle piazze d’Italia. In mezzo alle statue di due figli nobili del borgo. Di fronte allo spettacolo unico delle fontane lombardesche – ah, ma si possono vedere quindi! – e della chiesa dei santi Rocco e Sebastiano, con il castello di Alboino lassù in alto e palazzo della Ragione dietro a chiudere una quinta scenica aperta. Un palco aperto su quattro lati, per godere maniacalmente della bellezza della piazza. Con un gioco di luci magistrale che più non si può – e lo stesso nell’altro palco – a sottolineare pregi, palazzi, sfregi; a incorniciare sensazioni. Con una resa acustica perfetta in ogni angolo, senza distinzioni – ah, ma allora si può! – tra fronte e retro, tra destra e sinistra, tra alto e basso. Suoni e luci hanno disegnato per una volta una piazza nuova e antica. Non più addormentata tra illusione e realtà.
Ci sarebbero numerose altre immagini da trasformare in parole e frasi. Senza riuscire comunque a terminare, a raccontare JazzitFest. Qualcosa sfuggirebbe sempre. Qualcosa resterebbe nascosto tra le ombre, indefinito. Un ricordo che scalda il cuore e che trae forza proprio dal suo essere inafferrabile. Una memoria di un accordo formato “dalla quarta e dalla quinta, dalla minore discendente e dalla maggiore crescente”.
JazzitFest. Dieci lettere che ci ricordano che il domani ha ancora speranza se ci si lascia guidare dalle passioni…