Un pianoforte
che accompagna il mio errare,
le sue parole si fondono
ai miei pensieri
mentre s’ingannano le note
a rincorrere le immagini
che rimbalzano qui e là, quasi fossero
uno sbiadito flipper di periferia.
Avanza, strascicando, la nave
tra l’acqua e il ghiaccio,
le vele al vento addormentato
– e il suo sorriso mi sferza,
mi scuote
e ripercuote, poi mi lascia
adagiato al suolo –
al timone impettito il capitano
a indovinare la rotta
dal rifrangersi delle onde
– e la sua voce mi schiaffeggia,
mi sorride
e illumina, poi mi lascia
colpevole al buio –
Terra! Terra! ed è lo sbarco,
vissuto e rivissuto
accanto al cadavere della nave
– e il suo nome mi chiama,
mi invoca
e supplica, poi mi lascia
tramortito dal silenzio.
E le note si spengono
lente
nell’immagine irreale
di quella mano di marinaio:
“Piacere, Giacomo Uncino, capitano”.