Osvaldo!
L’eco si prolungò lungo le fredde pareti della cantina, senza che arrivasse una risposta. Il nome risuonò ancora, questa volta più vicino e accompagnato da uno scalpiccio.
Osvaldo!
Disse ancora la voce, nascosta dall’ombra del tunnel, ma ormai prossima ad apparire. I passi erano diventati più lenti, e più rumorosi. Rimbombavano nel vuoto.
Osvaldo, ma perché non rispondi?
Domandò infine la voce, apparendo nella luce, la sinistra a schermare gli occhi disabituati. E di fatto a coprire il volto che si accompagnava a un corpo plastico, dinoccolato, quasi troppo magro per essere vero. Un corpo coperto da una maglia dell’Argentina, vecchia quasi quanto le pareti, sbrindellata ai bordi, e da un paio di jeans rattoppati alle ginocchia. Ai piedi calzava mocassini, senza calze. Sulla destra una sigaretta, spenta, che tormentava tra le dita.
Il gordo lo guardò, lasciando muta la risposta. Un bicchiere nella mano sorseggiava un liquido rossastro, prelevato da una qualsiasi delle bottiglie che riempivano la cantina. Lo levò, a mo’ di brindisi, e tracannò d’un fiato. Si pulì la bocca e la barba con la manica di una consunta camicia che, aperta, lasciava intravedere buona parte del petto villoso e generoso. I pantaloni proponevano, qua e là, macchie della stessa tonalità di rosso.
Con calma, rispose, versandosi un altro bicchiere.
Cos’è quest’ansia, Flaco? La cantina del nostro anfitrione è davvero divina. Dovresti assaggiare qualcosa anche tu.
Carlitos lo squadrò, con un cenno di rimprovero. Infilò la sigaretta in bocca e tastò le tasche alla ricerca di un cerino. L’accese e, boccheggiando, riprese a parlare, lentamente.
Siamo attesi, lo sai. E non dovresti trangugiare tutto quel vino prima di pranzo.
Con un gesto della mano Osvaldo tacitò il compagno. Osservava il bicchiere, quasi a volerne cogliere l’essenza. L’anima annidata in quel rosso d’annata che aveva pescato curiosando nella cantina del loro ospite, togliendo polvere e ragnatele dalle bottiglie, tossendo tra una sigaretta e l’altra. E che ora, rese mozziconi, lo guardavano colpevolmente dal basso, proprio accanto alle sue logore scarpe da ginnastica.
Finì di bere e a malincuore ripose il bicchiere su di un vecchio tavolo imberlato, al centro della stanza. Si pulì ancora con la manica della camicia, incurante delle striature rossastre che lasciava. Poi, si avviò assieme all’amico.
Sparirono nel buio del tunnel, accompagnati solo dalla tremula fiammella delle sigarette che ora entrambi gustavano. Strana coppia di amici, quasi comica nella loro dissimilitudine. Carlitos magro quasi quanto uno stecco, il Flaco. Osvaldo che della pinguedine aveva fatto una seconda ragione di vita, il Gordo.
Sbucarono nella cucina della villa ancora fumando, in silenzio. Con nonchalance, il Flaco gettò il mozzicone nel camino, poi mise una mano sulla spalla del Gordo, che lasciava la sigaretta a consumarsi all’angolo della bocca.
Prima o poi, dovremmo smettere, amico mio.
Il Gordo lo guardò di sbieco, sbuffò una nuvola di fumo che salì lenta. Non rispose, e continuò a camminare, trascinando i piedi sul pavimento a piastrelle. Dopo un attimo, l’amico lo seguì. Attraversarono il salone e sbucarono, da una grande porta a vetri, sul portico. Nell’uscire, Osvaldo spense ciò che restava della sigaretta in un posacenere che lo aspettava, o dava quest’impressione, al limitare del salone.
Fuori il sole splendeva alto, e l’afa, dopo il fresco della cantina, li colpì all’improvviso. Una smorfia sul volto, scesero i tre gradini che separavano il portico dal giardino.